2004 raid in marocco

Pubblicato il 11 Apr 2006


2004 – Raid in Marocco Partecipare a una sfida che comporta il dover percorrere 450 km. di fila con una mountain bike in Africa, senza assistenza e cercando di farli nel minor tempo possibile, ebbene, non è cosa di poco conto.

Sono comprese nello stesso evento una moltitudine di problematiche sia relative alla macchina ( bici ) che al motore ( uomo ), la cui miglior soluzione è possibile solo se si hanno profonde conoscenze delle caratteristiche di clima e ambiente con cui ci si confronterà, ( in questo caso deserto e montagne africane ).

Certo, limitandoci a considerare solo la tipologia della gara, i pensieri vanno a cercare il confronto con una 24 ore no stop del tipo Finale Ligure ( in solitaria intendiamoci ), ma qui in realtà il gioco è molto diverso, perchè una cosa è girare per 24 ore sotto l'ala protettiva di un rassicurante circuito da fare più volte, con la bici in assetto da cross country e l'assistenza pronta a tutto, un'altra è...

...catapultiamoci con la mente in terra d'Africa e aggiungiamo il fatto che i 450 km, debbano essere fatti in autosufficenza: cosa cambia cosi? E' evidente che la bici con cui ci apprestiamo ad affrontare la prova non è quella con l'assetto per una 24 ore di cross country.

Per chiarirci le idee, diamo un attimo un'occhiata al regolamento, dove alla voce materiali da portarsi dietro pena squalifica leggiamo che è obbligatorio avere : sacco a pelo, telo termico, bussola, coltello, laccio e siringa succhiasangue, specchietto, fischietto, accendino, bussola, viveri per un minimo di 2000 calorie giornalieri e impianto luci anteriore e posteriore funzionante e con relative batterie di scorta.

Pensiamo poi a dove stiamo andando: le montagne dell'Atlas ( quasi 3000 metri di altitudine e poi il deserto ), zone di plateau sospese fra deserto e lande sassose ed oltre 30 gradi di escursione termica tra il giorno e la notte significano che non si potrà partire con il solo body da spinning.

Inoltre, non potendo ricevere alcun aiuto esterno, sarà fondamentale scegliere con cura anche il materiale d'emergenza relativo ai possibili guai per la bici.

In testa ai pensieri ci sono i problemi relativi alle ruote: forature, raggi che si allentano, gomme che si aprono, etc...

L'elenco delle possibili disavventure è lungo e quindi, se non vogliamo partire con un rimorchio stipato di pezzi di ricambio, generi di conforto e quant'altro occorre non cadere in grossolani errori di valutazione.

L'approccio alla soluzione deve innanzitutto tener conto del modo in cui si deve affrontare questa avventura: a manetta, tutta d'un fiato, senza praticamente fermarsi e quindi nel minor tempo possibile oppure prevedendo uno o due stop notturni con due tre giorni di tempo per concludere il raid?

E' palese che più l'andatura sarà turistica, più roba occorrerà portarsi dietro per nutrirsi e ripararsi durante le ore più disagiate. Per semplificare l'argomento prenderò in esame il modo in cui personalmente gestirò la cosa.

A me piacciono molto i paesaggi selvaggi e il senso di libertà che senti solo quando respiri l'aria dei deserti africani, per cui non mi perderò neanche un giorno di quelli che l'organizzazione mette a disposizione per andarmene in lungo e in largo a vedere fotografare e conoscere cose, fatti e persone dei luoghi che attraverseremo.

Per quanto rigarda il raid di 450 km, quelli però cercherò di farli il più in fretta possibile.

Questo significherà andar via leggeri con il minimo indispensabile.

Il materiale obbligatorio, quello necessariamente farà parte della dotazione di bordo, e dovrà essere ben scelto!

A parte pompa succhia veleno, bussola ( e mi porterò dietro anche il Garmin ovvero un G.P.S. ) e tutto il resto, il regolamento parla anche di viveri sufficienti a fornire 2.000 calorie giornaliere.

Se valutiamo il fabbisogno energetico che occorre al fine di pedalare per 450 km in fuoristrada, partire con solo 2.000 calorie di scorta sarebbe come partire per la Parigi Dakar con un serbatoio sulla moto da cross dalla capienza di 5 litri di benzina: ci si pianterebbe di li a poco sulla pista senza carburante...

Così con 2.000 calorie si può forse affrontare una gran fondo da 100 km: poi ci si pianta!

La scelta del tipo e della quantità del carburante sono quindi determinanti.

L'uomo ( se non affetto da deficit e handicap ipomotori ) è un ottima macchina biologica, assai parca nei consumi.

Con una pagnotta in bici si coprono agevolmente i 30 km, per cui anche economicamente non si può dire che non sia redditizio andare in bici.

Il peso del cibo occorrente per ottenere 2.000 calorie corrisponde in media a circa un kg.

Questo calcolo empirico ci fa capire che, qualunque siano gli ingredienti che sceglieremo, il fardello che ci dovremo portare appresso è comunque notevole: almeno 4 Kg. di cibarie!

Certo, si può sempre confidare su ciò che trovi per strada, ma non vorrei comunque essere costretto a catturare lucertole e cavallette.

Nel caso fosse necessario, comunque, ricordatevi di portarvi dietro un buon accendino antivento ben carico: potrete infatti abbrustolire con quello le prede catturate che, in questo modo, risulteranno inoltre calde e croccanti.

Difficilmente, comunque, capita di percorrere tanta strada senza incontrare nessuno.

Anzi, è prevedibile che si attraversi qualche villaggio dove sarà possibile rifornirsi e mettere qualcosa di “locale” sotto i denti: caratteristiche sono certe bettole dove si entra e si trova un enorme pentolone fumante contenente un denso minestrone con pezzi d'agnello o di cammello che cuociono fino a squagliarsi e di fianco un altro pentolone pieno d'acqua che viene usata per rilavare le ciotole dove gli avventori consumano il pasto.

Pittoresco il fatto che l'acqua per tutta la giornata sia la medesima, per cui solitamente a sera il contenuto delle due pentole non risulta essere molto diverso...

Comunque, lasciamo per il momento da parte l'argomento cibo e torniamo a pensare un pò alla nostra bici. Iniziamo da terra e cioè dalle gomme: se ne vedono e se ne dicono tante!

Un tempo l'argomento veniva affrontato con i metodi più disparati: grazie a Dio ora, nel terzo millennio, non c'è più da essere disorientati perchè non c'è che da montare gomme tubeless con all'interno il liquido antiforatura. Se questo per talune persone può ancora essere messo in discussione, allora è meglio che non vadano in Africa a fare centinaia di km senza assistenza se non quella della provvidenza... Sulle piste africane, per le camere d'aria sarà strage!

Non per i sassi ( anche se in certi tratti vi sembrerà di camminare in mezzo a noci di cocco ), nè per le velocità raggiunte, che non saranno mai così elevate... la causa la si può facilmente intuire osservando i radi animali come capre, asini o cammelli che si contorcono in vari modi per arrivare a brucare qualsiasi cosa che non siano... SPINE dalla scarna vegetazione predesertica. Potrete facilmente ed amaramente constatare avvicinandovi un pò al più insignificante cespuglio come alla secolare acacia, che troneggia magari a fianco di una pista, che entrambe le piante sono piene di spine, difesa naturale di questa povera vegetazione adattatasi a condizioni climatiche cosi estreme.

E che spine! Ce ne sono di formidabili!

Alla Libike, nel 2000, chi mi precedeva forò e sembrò come se la ruota avesse risucchiato un cacciavite! Con certe spine viste lì si potrebbero inchiodare dei mobili, altre invece sono subdole e apparentemente innocue.

Per le gomme delle bici, invece, sono forse sono le peggiori perchè si trovano solitamente sopra un dischetto ligneo con le punte all'insù, seminascoste nelle distese sabbiose, galleggiando nella sabbia ad aspettare.

Le vidi per la prima volta attraversando i cordoni di sabbia delle dune dell'Akakus, queste cosette grandi si e no come una moneta da cinque delle vecchie lire, ed all'inizio non ci feci caso; fu togliendo la prima dalla ruota anteriore che capii con terrore che se non volevo rimanere in fretta appiedato anche in discesa ( in salita lo ero già, e con la sabbia ai polpacci ) con le gomme miseramente floscie era meglio dare uno squardo molto più attento alla sabbia davanti a me... e pensare che fino a quel momento pensavo bastasse fare attenzione a non calpestare una vipera!

Quindi spine ovunque.

E se è vero che da noi le piante perdono le foglie, nel deserto le poche piante perdono tante spine. Immaginatevi cosa voglia dire andarci con le ruote con camera d'aria. E di notte poi...

Di giorno ancora ancora si riesce a schivare qualcosa, se vedi un albero o un cespuglio ci giri al largo perchè sotto e attorno la concentrazione di aculei è massima, ma con il calar del sole, anche se qualcosa comunque distingui, è facile infilare le ruote in un basso arbusto o una pianta simile. Ricordo che il mattino dopo una tappa notturna alla Libyke, dovetti estrarre dalle mie gomme ben 57 spine, alcune della quali dalla dimensione di un chiodo da cantiere.

Per fortuna avevo gomme tubeless e liquido antiforatura e la pressione rimase sufficiente, o almeno restò tale per tutta la durata del pezzo a cronometro. Certo, le camere d'aria di scorta ( come risorsa d'emergenza, o se capita un guaio al copertone ) è comunque imperativo portarle dietro, insieme al relativo kit di riparazione gomme e affini, sempre se non volete ridurvi a trasportare con voi un treno di gomme di scorta: ma come ci si arrangia a riparare le gomme quando capitano dei guai imprevisti?

Innanzitutto, elenchiamo l'armamentario da tenere a portata di mano: piccole forbici, un pezzo di camera d'aria, un pezzo di stoffa, del buon filo con il relativo ago, una confezione di cianocrilato ( attack ), delle pezzette pronte con relativo mastice e un pò di carta abrasiva a grana grossa.

Il tutto smuove a fatica l'ago della bilancia, ma con un pò di savoir faire sarete salvi anche nelle situazioni meno auspicabili.

Cio che ripara l'impensabile è il cianocrilato, utilizzato per amalgamare pezze, sbraghi di copertone previa ricucitura ad ago e filo e per sigillare fori di dimensioni preoccupanti. Smontata la gomma e ripulita la superficie da trattare con un'energica strofinata di carta abrasiva, amalgamate la riparazione di fortuna con l'attack: dopo pochi secondi, asciugato il tutto, potrete ridar aria alla gomma che, essendo tubeless, avrà bisogno di una spinta di pressione importante, per cui occorrerà sacrificare una bomboletta di aria compressa.

Per meglio favorire il tallonamento e non avere delusioni, viste le circostanze ( in Africa, da soli, nel deserto ), meglio aiutare questa fase delicata bagnando con l'acqua della borraccia le spalle della gomma stessa, che avrà cosi migliori opportunità di prendere pressione senza sfiatare dai bordi del cerchio.

Ed ora passiamo alla questione dei fari.

Per farsi 450 km. in sella alla mountain bike le 12 ore solari non bastano: occorre continuare anche col calare delle tenebre e quindi, come in una 24 ore non stop, bisogna attrezzarsi a dovere.

Dato questo per assunto, ci troviamo ora di fronte ad un dilemma che da a pensare: a Finale Ligure, per girare tutta la notte con un impianto alogeno della potenza di 10 Watt ( il minimo per poter affrontare un percorso fuoristrada ) ho dovuto utilizzare tutte e 4 le preventivate batterie da 6 Ampere, dal peso cadauna di 750 grammi che, ovviamente, cambiavo ai box mano a mano che si esaurivano.

Con un incremento di circa 800 gr. da portarsi appresso nelle ore notturne, il problema è stato quindi risolto. Ma qui le cose cambiano.

Non potendo contare su alcun aiuto esterno, se vogliamo utilizzare lo stesso canonico impianto alogeno della potenza di 10 watt e girare tutta la notte, le 4 batterie ce le dobbiamo portare dietro e tutte e 4 già dal mattino... oltre tre chili di peso, una vera e propria zavorra da sommare a tutto il resto. Il problema è sentito un pò da tutti coloro che chiamo al telefono e che si stanno preparando anche loro ad andare in Marocco. Le soluzioni proposte sono ben degne dell'italica fantasia poichè, ovviamente, nessuno se la sente di portarsi dietro l'equivalente in peso di un ancora da diporto!

Si comincia con chi fa affidamento sulla luminosità della volta celeste, specie con la luna piena. In effetti in Africa al calar del sole non si scompare nella notte e nella nebbia... grazie alla pulizia dell'aria e alla posizione più vicina all'equatore, si hanno visuali quasi paesaggistiche, per cui... qualcosa vedremo!

Altri pensano ad organizzare delle staffette che si diano il turno con le luci.

Micidiale la pensata di un altro: non c'è bisogno di grandi impianti di illuminazione... basta abituare da subito gli occhi all'oscurità, e per farlo occorre girare già da adesso di giorno con due lenti scure contrapposte, in modo che gli occhi si abituano all'oscutità. Roba da piloti da caccia della seconda guerra mondiale! “Amico secondo me sei fermo ai tempi della battaglia d'Inghilterra” gli dico quando mi chiede il parere sulla sua idea...

C'è, per finire, chi pensa di mettersi l'anima in pace, entrare dentro un sacco a pelo ed aspettare l'alba successiva per continuare.

Scartata questa ipotesi, non fosse altro che per il freddo che ti attanaglia nell'istante in cui ti fermi e ponderate altre varie e pittoresche soluzioni, alla fine ho pensato che, come la gente comune quando sta male va dal dottore, altrettanto dovevo fare per le luci.

Avevo bisogno della consulenza di un esperto, di un professionista del settore. E in questo sono fortunato perche sono amico addirittura di un campione regionale di installazioni hi-fi e congegni elettrici ed elettronici in generale. Mi dirigo quindi verso il nuraghe di Paolo Meloni ( noi sardi, almeno quelli veramente doc, viviamo ognuno in un nuraghe di proprietà :-)) e, trovatolo, gli espongo il quesito: è possibile avere tanta luce con poco peso?

Paolo, che pure lui è un appassionato biker, soppesa per un pò il probema. Valutati tempi ( 12 ore ) potenza minima necessaria e temperatura dell'aria ( intorno ai zero gradi ) scarta subito di cavar qualcosa di buono dai tradizionali alogeni.

“Qui ci vuole il super Led” sentenzia senza indecisioni.

“Si bello, ma che cos'è ?” gli domando.

Senza rispondere, entra nel retro della sua officina di installatore e sparisce inghiottito dagli scaffali. Rimango in attesa, mentre dall'interno si sentono rumori di scatole spostate, aperte, alcune scuoiate... “Mah!” penso fra me, mentre osservo i circuiti elettrici che escono dal cruscotto di una super car affidata alle sue cure e che da profano mi appare sulla via della demolizione... Alla fine ritorna con in mano qualcosa che a pugno chiuso non si riesce a vedere.

“Ecco qua!” esordisce con tre cosine sul palmo della mano. “Super led da 25, parabola ottica di profondità e batteria sufficente a fornire 20 ore di autonomia”

“Ma come, quei pistolini lì farebbero tanto? E allora il mio impianto alogeno con le batterie da 6 volts ricaricabili, orgoglio tecnologico aquistato solo alcuni mesi fa?” “Obsoleto” è la sua laconica risposta. Assieme al super led Paolo mi prepara anche un secondo impianto a otto led che serviranno a dare luce diffusa, pure questo un marchingegno dai pesi e consumi irrisori.

Montiamo le luci configurando il faretto per luce diffusa sulla bici, davanti al portaroadbook in carbonio, mentre il super led, vista la potenza e la profondità di luce erogata, troviamo più conveniente installarlo sul casco. Cosi il cono di luce, senza risentire delle vibrazioni può essere direzionato dove serve. Montato e provato il tutto non rimane che collaudarne l'effettiva durata, lasciando le luci accese fino a terminare la carica delle piccole batterie.

Osservo la bici illuminata come un albero di Natale e un pò mi fa rabbia vedere questo spreco per cui, su due piedi, decido: mi cambio velocemente, zainetto in spalla, casco in testa e via a tuffarmi nella notte prendendo la via delle montagne. Le ore trascorrono velocemente e le carrareccie del Sarrabus Gerrei, a me cosi familiari mi accolgono in silenzio. Nei tratti non troppo veloci, come in salita, spengo il super led: la luce della bici è più che sufficente a pedalare in armonia e tranquillità.

Le ore passano mentre il mio vagabondare continua solitario.

Solo qualche bracconiere, che riconosciutomi mi saluta dal buio della macchia o l'attraversamento improvviso di un selvatico fanno da variante. Le luci non accennano a perdere intensità e capisco, quando arrivo ad intravvedere le prime avvisaglie dell'alba, che il quesito è risolto.

Presi in considerazione pesi e materiali da portarci dietro, come sistemeremo questi nella nostra bici? Se andiamo a vedere cosa troviamo sulla piazza per attrezzare la bike rimaniamo un pò delusi: borsette, borsettine, portapacchi e ammenicoli vari, tutti da appendere in modo più o meno precario e folkloristico nelle zone periferiche della bici, roba buona per fare magari il giro del mondo, si, ma su asfalto! Buttatevi così conciati su un tracciato di crosscountry o in una pista africana ( che poi è la stessa cosa ) e vedrete che fine faranno i vostri bagagli: le probabilità di smarrimento raggiungeranno percentuali degne di aereoporti come Malpensa o Fiumicino!

In realtà sul mercato non ci sono materiali specifici e razionali per viaggiare in bici per il semplice motivo che questa, almeno nell'ultimo mezzo secolo, ha perso il valore di mezzo di trasporto e viene considerata quindi come un attrezzo sportivo o un mezzo per il tempo libero. In entrambi i casi, essa deve assumere ruoli secondari nei quali se considerata oggetto per la prestazione sportiva, più è raffinata e più deve essere essenziale e leggera, se considerata per il tempo libero, comunque è un mezzo da usarsi col bel tempo e sicuramente non quando piove, è notte, tira vento e/o fa freddo. E' dagli anni 60 che in questi frangenti il popolo comune va in macchina.

Anzi, per dirla tutta, il popolo comune va in macchina sempre, ovunque e comunque.
Di fronte a questa realtà, quindi, non possiamo aspettarci che le cose possano essere risolte dai produttori di bici e accessori.

Eppure basterebbe avere un pò di memoria storica e tornare indietro. Quanto? Diciamo 100 anni, quando la bici aveva veramente dignità di mezzo di trasporto, da usarsi sempre, in tutte le condizioni, da tutti e non solo per fitness. Le due ruote avevano veramente allargato gli orizzonti della gente e portato un reale migliorameto della mobilità, prima concepita solo a piedi o a cavallo. Anche la ferrovia allora più di tanto non poteva, per gli spostamenti limitati o decentrati non c'era che la bici.

Questo formidabile nuovo mezzo rapidamente faceva proseliti in tutta Europa codificando una nuova razza, quella dei ciclisti. Nell'arco di qualche decennio si organizzarono tutta una serie di massacranti competizioni sportive che inseguivano il comune denominatore di essere sempre più sbalorditive, difficili e lunghe. Si riuscivano a coprire in un giorno sempre più km. e sempre più in fretta. La tecnologia dei materiali, dietro questo impulso, fece prodigiosi balzi in avanti tant'è che, praticamente dal nulla, in un ventennio si è arrivati a concepire la bici così come ora noi la conosciamo.

Un tale nuovo strumento, e soprattutto una tale massa di gente che la utilizzasse, non poteva certamente passare inosservata agli occhi dei militari, che infatti, in tutte le nazioni, allestirono specifici reggimenti di ciclisti. All'inizio si pensava di utilizzare questi solo come staffette portaordini e di collegamento ma poi, anche in virtù dell'elevatissimo serbatoio di adepti del pedale, si inquadrarono veri e propri reggimenti. In Italia si formò il corpo dei bersaglieri ciclisti, un corpo d'èlite per l'epoca. E veniamo al punto della questione che ci interessa guardando da vicino una bici militare in uso all'epoca: stiamo parlando della bicicletta tattica Bianchi modello 1905. Non conoscevo questa macchina, ed ho scoperto che è tutta particolare.

Rientrando da un allenamento serale passando presso un torrente accanto al mio paese vidi quello che restava di una bici tutta arruginita e mezzo sommersa. Siccome i ferrivecchi mi attirano, girai e andai ad osservare meglio quello che comunque pareva solo il relitto di un anonima bici. Presa per il manubrio e schiodatala dal fondo sassoso subito notai dei particolari inquietanti...

Non era una bici qualsiasi. Sotto uno strato di ruggine erano comunque ben distinguibili un ammortizzatore posteriore, un portapacchi particolare e addiritura una forcella con sistema ammortizzante. Caricatala sulle spalle, con fare furtivo quasi fossi un bracconiere con un cinghiale appena ucciso, per non sorbirmi i sicuri lazzi della gente ( “Non solo passa il suo tempo a bighellonare in bici, ora si porta a casa anche l'immondizia!” sarebbe il più benevolo dei commenti dei vicini... ) tornai in paese.

Osservatala con calma, la bici rivelava tutto un insieme di cose che spontaneamente mi fecero pensare: ma la mountain bike non l'avevano inventata gli americani?

Questo ferro, che sul cannotto esibisce un fregio militare in ottone cotto dalla ruggine, ma con ben stampigliato “46 reggimento fanteria”, ha un ammortizzatore a barra di torsione sui foderi bassi con snodi e ammortizzatore a molla centrale che corrisponde in pieno a quel tanto decantato e glorificato sistema “inventato”, come ben sappiamo da Tom Ritcley... Il buon Tom era sicuramente in buona fede perchè mai avrebbe immaginato che la Bianchi l'avesse gia adottato ( e per centinaia di migliaia di pezzi! ) nelle bici militari fin dal 1905, come potei appurare documentandomi meglio in seguito.

Guardando la bici nel suo assetto completo, quello che mi appariva non era il lavoro di un tecnico o di un ingegere sui generis, ma era invece il risultato di tutta una serie di esperienze fatte da migliaia di uomini, che percorsero milioni di km nelle condizioni più critiche. E' chiaro che le bici non si dovevano rompere e che i materiali forniti in dotazione non dovevano essere persi.

Credete che la bici fosse organizzata come quella dei cicloturisti odierni? Ma quando mai! Se cosi fosse stato, avremmo perso anche la prima guerra, oltre che la seconda...

Riprendendo quanto esposto nella pagina precedente, il punto chiave, per una questione di baricentri oltre che di spazi, dove stivare il più possibile era ed ovviamente rimane all'interno del triangolo centrale del telaio, dove ho sfruttato al massimo lo spazio mettendo un gavone rigido in carbonio che, con un peso complessivo di 280 gr, mi permette di poter caricare tutto ciò che ha un peso elevato, anche se con poco volume. Non vado certo a riporci il sacco a pelo che pesa meno di un kg. o gli indumenti extra, anche quelli si voluminosi ma non degni di considerazione per il peso complessivo: nel gavone ci metto tutto cio che mi sbilancerebbe e renderebbe difficoltosa e insicura la guida off-road. Che cosa?

Innanzittutto tutti i cibi che, dovendo per regolamento essere in quantità da apportare 8000 calorie, giocoforza non potranno essere inferiori ai 3 kg. complessivi. Poi ci infilerò tutti gli atrezzi e i kit di riparazione vari, come quelli per le gomme, camere comprese.

In ultimo, grazie a delle cinghie sopra il tubo centrale, fisserò una sacca in cui vi sono gli indumenti per la notte, questi si ingombranti, ma nel complesso leggeri. Posteriormente sul portapacchi caricherò i 2 kg dati dal sacco a pelo e da una borraccia da un litro, che farà coppia con l'altra borraccia, quest'ultima disposta però in un posto basso: sotto il tubo obliquo del telaio.

Al portaroodbook sul manubrio è delegato invece fare da supporto anche a ciclocomputer, G.P.S., bussola e faro a luce diffusa.

Il decalogo standard del perfetto cicloturista viaggiatore prevede che la zona più importante della bici ( triangolo centrale ) sia utilizzata al massimo da due portaborracce e che quindi, qualunque siano i pesi e i volumi al seguito, questi vengano più o meno distribuiti su portapacchi vari un pò sulla forcella e il resto posteriormante. Si vedono certe soluzioni, in giro per il mondo, che rassomigliano tanto alle traccas ( carri allegorici e folcloristici ) che si esibiscono da noi per la festa di Sant'Efisio, (V.I.P. dei santi sardi).

Poi ho a disposizione il jolly, e cioè lo zainetto. Questo ha molta importanza in quanto, se correttamente valorizzato, è di grande aiuto. Inutile portarlo appresso stracarico, specie in salita o dove occorre far fatica: sarà come avere un Koala aggrappato alle spalle.

Su terreno buono o in lunghi tratti di salita ove ovviamente la velocità è bassa e le vibrazioni pure, tanto vale caricare il più possibile sulla bici, mentre al contrario, invece, accadrà nei tratti fuoristrada veloci, come discese o falsopiani sconnessi.

Per esempio nelle famigerate Tole Ondulè, vero flagello smonta-macchine, non c'è verso di venirne a capo. Questa costante situazione presente sulle piste dura africane sembra essere prodotta dalle sollecitazioni delle sospensioni dei mezzi in transito. Queste ondulazioni del terreno possono variare da pochi cm a quasi un metro di intervallo costante, più o meno profondo.

O vai piano ( a passo d'uomo ) o ci passi sopra velocissimo cercando di galleggiarci sopra. In questo caso, meno roba hai sulla bici, meno ne perdi ed allora alleggerire questa mettendo un pò di peso sulle spalle, alla fine, è il male minore.

Vorrei tanto raccontarvi tante altre cosi inerenti la preparazione del mezzo e delle precauzioni da adottare in terra d'Africa però oggi è giovedì 18 novembre e sono ormai le 22. Dopodomani parto e ho tante cose da fare: riordinare bici, atrezzature ed idee, sperando di non dimenticare qualcosa che si rivelerà essermi fatale...

Ad ogni buon conto, mi porterò dietro come sempre il portafortuna, che è la croce del deserto dei Tuareg di Janet, rifatta, ovviamente, in oro carbonio dal sottoscritto, perchè in gara, specie sotto il segno dell'avventura: No Victor, No Glory!!!

Ci risentiremo al ritorno. Victor